Il mio blog preferito

venerdì 22 marzo 2013

Il santo graal - Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln


I libri, come i misteri, si snodano in lunghe ghirlande e hanno seguiti talvolta imprevedibili. Questo è un libro nato da molti libri, e che a sua volta ha prodotto libri e film. 
Si tratta insomma, per uscire dalla Palude delle Raffinate Metafore, del saggio in parte di fantastoria che Baigent, Leigh e Lincoln, giornalisti inglesi, pubblicarono nel 1982 e che è dichiaratamente alla base del Codice da Vinci - anche se, dal mio punto di vista, Dan Brown fece l'errore di occuparsi dell'insulsa parte moderna invece di concentrarsi sulla ben più affascinante parte legata all'arco storico che va dal I al XV secolo dopo Cristo.
In casa nostra entrò appena tradotto in italiano, portato da mio padre, che da sempre è appassionato di Misteri Misteriosi, e tutta la famiglia se lo divorò con entusiasmo; tuttavia l'impronta più profonda la lasciò senz'altro su di me, tanto che è diventato uno dei miei libri preferiti, da rileggersi periodicamente, e ha cambiato il mio modo di avvicinarmi alla storiografia in generale e in particolare alle fonti storiche.

Partendo da una serie di Eventi Misteriosi che spaziano dal XIX al XX secolo, spesso tenuti su con gli spilli e nemmeno troppo bene, gli autori ipotizzano una società segreta incaricata di tutelare il futuro Ritorno del Re, che dovrebbe essere nientemeno che un discendente di Gesù di Nazareth. La ricostruzione della catena di indizi moderni è divertente e nulla più, anche se mi ha permesso di conoscere la serie dei quadri "Et in Arcadia Ego", che sono sempre un bel guardare. La parte veramente affascinante però per me cominciò con i capitoli dedicati a Gesù (e infatti da lì partii per la lettura).
La vicenda ricostruita dagli autori è piuttosto nota, perché il libro ebbe grande successo e viene tuttora regolarmente ristampato: Gesù, dal quale gli ebrei si aspettavano di essere guidati in una rivolta che li riscattasse dalla dominazione romana, non morì sulla croce e in ogni caso sua moglie, Maria di Magdala, fuggì dalla Palestina portando con sè il sangue reale (o sang real) ovvero i figli, e approdò in Francia. Lì la discendenza di cotal sangue reale salì al trono e regnò (i re merovingi). Più avanti un discendente dei merovingi, Godefroy de Bouillon (Goffredo di Boglione, per noi italiani) venne messo a capo della prima crociata, che aveva lo scopo di riportare appunto la terra di Gesù sotto il dominio cristiano. Proprio in occasione della prima crociata nacque il misterioso ordine dei Templari e proprio all'ambiente dei templari è legata tutta la vasta letteratura legata al Santo Graal, la magica coppa da cui Gesù bevve in occasione dell'ultima cena e dove si racconta che venne raccolto il suo sangue durante la crocifissione. La storia continua anche dopo la drammatica soppressione dell'ordine dei Templari (avvenuta agli inizi del XIV secolo) ma a quel punto perde interesse ai miei occhi, perché usciamo dal medioevo edall'arco temporale in cui i misteri di cui si parla sono autentici misteri.

Com'è noto, la storia è piena di Autentiche Circostanze Misteriose, non (soltanto) perché le fonti spesso scarseggiano o non sappiamo interpretarle bene o perché la scrivono i vincitori, ma anche e soprattutto perché, da sempre, una parte della storia non viene scritta perché deve rimanere segreta per i più vari motivi. Una regina che si ritrovi a figliare con altri che non sia il suo legittimo consorte, o un esattore che intasca più del dovuto, poniamo, evitano con cura di lasciare ampia testimonianza scritta della cosa, e di molte ambasciate e trattative e mediazioni ci si guarda bene dal tenere registrazione; capita spesso quindi che allo storico molte cose sfuggano, perché non ne trova traccia, mentre al contempo costui prende per oro colato le più colossali balle. E capita anche spesso che uno storico che affronta con occhio non prevenuto resoconti tramandati di padre in figlio da molti secoli si accorga che c'è qualcosa che non va. Così ci accorgiamo una bella mattina che la Donatio Constantini è scritta in un latino improponibile per il IV secolo, e che di Omero a ben guardare non sappiamo un accidente di niente, a partire dal fatto che sia effettivamente esistito.

Cercare notizie attendibili su Gesù, com'è noto, è un vero mal di denti. Un ebreo che a trent'anni non è ancora sposato? Un censimento dove ti devi portare dietro anche le donne di casa, comprese quelle in avanzato stato di gravidanza? Un ebreo ucciso sulla croce per volontà degli ebrei, che la crocifissione non la praticavano (ma i romani sì, eccome)? Chi era Maria di Magdala, e chi erano le Marta e Maria di cui si racconta? Eccetera eccetera. Ancor più interessante è rendersi  conto che la donna che unge i capelli di Gesù con olio di gran prezzo... in realtà compie un rito molto simile all'unzione dei re. Una donna?* Di misteri, in quella storia, non ne mancano di certo.

Sui re merovingi, l'unica cosa che si sa con certezza è che ne sappiamo proprio poco, a partire dal fondatore della dinastia, Meroveo, il quale fu concepito da una fanciulla vergine che, a quanto pare, bevve uno strano sorso d'acqua. Sul passaggio di dinastia ai carolingi se ne sa poco di più, salvo che Pipino il Breve mandò a chiedere una specie di autorizzazione papale, che gli fu concessa: "chi ha il potere effettivo, è giusto abbia anche la corona"; e da quando serviva nientemeno che il permesso del papa, per cambiare dinastia regnante? A centinaia di chilometri da Roma, poi. Forse c'era qualcosa di particolare in quel cambio di dinastia? 

E il graal, soprattutto, il graal che salta fuori nella letteratura del XII secolo (ma di cui prima non c'era traccia, non dico nei Vangeli della Chiesa o in quelli apocrifi, ma in nessuna fonte) e viene badato e amorevolmente sorvegliato da una misteriosa setta di accoliti che custodisce grandi misteri... che però non si sono mai degnati di spiegarci. O forse qualcuno li sapeva?
Non parliamo dei templari sulla cui fondazione abbiamo quattro righe di notizie che gli storici ripetono pazientemente da secoli e che non hanno senso. Un gruppetto di uomini (venti, mi sembra) che dovevano sorvegliare niente meno che le strade della Terrasanta, e il simbolo dell'ordine erano due cavalieri armati su un cavallo, in segno di povertà, ci spiegano - la sola idea di un povero cavallo che si porta addirittura due cavalieri con tanto di armature in sella, oltre che folle, è altamente crudele verso la povera bestia, destinata a stramazzare al suolo nel giri di pochi metri, e non parliamo di combattere.

Misteri ce ne sono, senza dubbio, da dare e da serbare. Siccome la storia è ordita bene, mentre leggiamo non ci sono problemi a mandare giù la storia della Stirpe Predestinata, custodita e preservata nella sua purezza nel corso dei secoli attraverso innumeri traversie e difficoltà, ma per ognuno dei misteri presentati ci sono altre decine e centinaia di possibili soluzioni - e se sui tempi dei re merovingi solo qualche francese ha pensato a costruire qualche romanzo storico (e Debussy un'opera), soluzioni alternative per Gesù, i cavalieri del graal e soprattutto i templari non ne mancano di certo. 

Il libro scorre bene, può essere letto per diritto o per rovescio, tutto di fila o in ordine sparso, sbocconcellando o leggendosi un capitolo ogni tanto, come un romanzo o come (nei capitoli centrali) un buon testo di storia divulgativa, fermo restando che è stato scritto ormai 30 anni fa.
Nelle ultime pagine viene anche individuato l'attuale discendente di Gesù (per quanto corra voce che negli anni successivi costui sia risultato discendere da un comunissimo alberello e non da un divino lignaggio bimillenario, oltre a non avere mai dato particolare prova di sé salvo in una certa mitomania), così la storia può dirsi completa.

Con questo post partecipo ai Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro un caldo e luminoso fine settimana e lunghe passeggiate e ottime letture a tutti quanti.

*devo questa interessante interpretazione ad Abelardo, che in una specie di de mulieribus dignitatem inviata a Eloisa come introduzione della regola che lei aveva chiesto per il suo monastero appena costituito cita proprio questo episodio aggiungendo "gli uomini unsero il corpo, ma la donna unse la testa".

sabato 16 marzo 2013

Quanto durerà la luna di miele?


La vignetta fu fatta in occasione del patto Molotov-von Ribbentrop del 1939, con cui Stalin e Hitler si allearono temporaneamente dividendosi per l'ccasione la Polonia come una torta (e la Polonia non fu molto contenta). La luna di miele tra i due finì il 27 Maggio 1941 con l'Operazione Barbarossa, e a quel punto a non essere più molto contenti furono i russi; poi le cose andarono come andarono.
Tutto ciò, e molte altre cose, sono state raccontate alla Seconda Effervescente al momento di addentare l'Europa dell'est, Germania compresa: una lunga lezione in due ore su come i vari stati di quella zona sono stati composti, spezzati e ricomposti nel corso del XX secolo. I ragazzi hanno seguito con attenzione come fanno sempre, tempestandomi di domande soprattutto sul comunismo e il Muro di Berlino, e ci sono rimasti malissimo quando hanno scoperto che non solo dovevano studiare tutto ciò, ma ad ogni nuovo paese dovevano estrarre le notizie che lo riguardavano (e ancor peggio sono rimasti quando hanno scoperto che, se non lo facevano, il voto dell'interrogazione calava a picco).
Non ricordo come siamo arrivati al romantico matrimonio tra Hitler e Stalin, con lo zio Jo avvolto in una nuvola di tulle bianco e la torta di nozze decorata a svastiche e falci e martelli, ma mi sembra che qualcuno di loro l'abbia trovata sfogliando le pagine sulla Germania del libro di geografia. Il disegno ha suscitato un discreto interesse, così gliel'ho cercato sulla LIM, profittando di uno dei rari momenti in cui il collegamento funzionava, e gliel'ho illustrata spiegando che a suo tempo Stalin era noto anche come "Baffone". E visto che sembravano addirittura ipnotizzati, tanto che uno di loro se lo è ridisegnato durante le interrogazioni (soltanto le mie, spero; ma non ci scommetterei più di tanto) hanno finito per metterlo come sfondo della LIM.
Così adesso chiunque entri in classe con la LIM accesa viene accolto dall'insolita coppia colta in quello che, probabilmente, non è stato il giorno più bello della loro vita.
L'effetto è curioso, ma non più di molte cose che succedono là dentro. E in realtà questa immagine è sempre piaciuta molto anche a me, nonostante tutto quel che si portò dietro (ma non certo per colpa del disegnatore, in effetti).

venerdì 15 marzo 2013

Chiedete e vi sarà dato


Per il Solito Progetto Interculturale cui ho fatto aderire la Prima d'Ogni Grazia Adorna serviva un minimo di attrezzatura: carta, cartoncini, carta da pacchi, cose così. Qualcosa avevamo, mancavano però i diciotto fogli di carta da pacchi, sei per classe. La collega Quadrella ha quindi chiesto alla Segreteria Centrale dell'Istituto Comprensivo, dove han risposto che non avevano carta da pacchi; la questione si è chiusa lì perché la Segreteria non ha cercato in alcun modo di approfondire la questione, né la  prof. Quadrella ha chiesto esplicitamente alla Segreteria di procurarci la carta in questione.
Quanto a me, ero candidamente convinta che la Quadrella avrebbe provveduto a tutti i dettagli dell'organizzazione, e il giorno prima che il Progetto partisse le ho chiesto placidamente quando sarebbe arrivata la carta da pacchi.
Con altrettanta placidità la Quadrella mi ha spiegato che la carta da pacchi per la sua classe l'aveva comprata lei, e  altrettanto aveva fatto la terza collega della terza classe aderente al Progetto.
"A vostre spese?" ho chiesto, senza nemmeno provare a nascondere l'indignazione.
"Ma sì, in segreteria non ce la davano".
Ora, la cosa sarebbe almeno in parte scusabile qualora le due colleghe fossero cullate dal lusso indolente dato da cospicue entrate: ma di entrambe so che vivono (come, ormai, la maggior parte di noi) in un delicato equilibrio economico che una robusta figliolanza in crescita non semplifica. Per chi gli piacciono i luoghi comuni del tipo "Ah, ma non sono 3.60 euro a cambiarti la vita" posso rispondere che con 3.60 euro ci compri due litri di latte o due chili di frutta o  un pacco di croccantini da gatti di qualità medio-alta e che, come osserva giustamente Paperon de' Paperoni, è con i cent che si fanno i milioni, ma NON regalando questi cent alle segreterie delle scuole. Inoltre,  per strano che possa sembrare, la mia famiglia mi ha tirato su con l'idea che si lavora per guadagnarsi da vivere e non per procurarsi ulteriori spese non voluttuarie.

Stante che, pur non avendo figliolanza da mantenere, non avevo altresì la benché minima intenzione di consacrare 3.60 euro del mio bilancio all'acquisto di materiale scolastico per la mia classe, ho chiesto alle Esperte Custodi come si faceva quest'anno con le piccole spese (un tempo la scuola aveva una piccola cassa autonoma, ormai sparita nel nulla qualche preside fa); mi hanno fornito un modulo per richiesta materiale che ho prontamente compilato e fatto spedire per fax alla Segreteria.
"Chiedila anche per noi" hanno detto le colleghe. E io l'ho chiesta anche per loro. Ben 18 fogli, con la specifica ben chiara della motivazione, che fosse chiaro che non la volevamo per usarla nei nostri bagordi personali.

Nel pomeriggio però, mentre ero a giro per i fatti miei, mi sono detta che non era giusto che la mia amatissima Prima d'Ogni Grazia Adorna si ritrovasse senza nemmeno un foglio di carta da pacchi il giorno dopo - perché nessuno è in grado di far materializzare dal nulla un foglio di carta da pacchi che non c'è, e metti che ne servisse uno proprio il primo giorno del Progetto? 
Così sono entrata in una delle lussuose cartolerie di Lungacque per acquistare UN singolo foglio di carta da pacchi, dopo aver deciso in cuor mio che mi sarei fatta restituire i soldi dai ragazzi.
"La vuole bianca o marrone?" mi ha chiesto il commesso. Ho così scoperto (non sono mai stata una gran consumatrice di carta da pacchi) che quella bianca costava 60 centesimi a foglio, e quella marrone solo 50. Dal momento che 60 centesimi per sei fa, appunto, 3.60 euro, ne ho dedotto che la carta da pacchi richiesta per il progetto fosse bianca, cosa che non avevo specificato nel modulo di ordinazione; mi sono perciò ripromessa di avvisare all'indomani la segreteria. Tanto, di lì a che partisse l'ordine... 

Accanto alla lussuosa cartoleria c'è però una bella e grande e assai ben fornita profumeria, di cui mi sono fermata ad ammirare la vetrina, e mentre ammiravo sono stata colpita da un avviso che prometteva uno sconto del 40% su certi profumi - e guarda caso, il mio personale reparto profumi era piuttosto sguarnito...
Non intendo dilungarmi in dettagli superflui; basti qui dire che, pochi minuti dopo e senza alcuna premeditazione da parte mia, a quei 60 centesimi per il foglio di carta da pacchi si era aggiunta una spesa un po' più consistente (nonostante il pingue sconto che mi hanno effettivamente fatto) grazie all'acquisto di due lussuosi flaconi di profumo, e che mentre pagavo meditavo se non avrei potuto  chiedere un rimborso alla scuola per quella spesa del tutto imprevista e che non avrei fatto ancora per qualche tempo se non fossi dovuta andare in cartoleria per questioni strettamente scolastiche (tuttavia sospettavo in cuor mio che la segreteria avrebbe trovato qualche specioso pretesto per respingere la mia pur legittima richiesta).

La mattina dopo ho cercato di telefonare alla segreteria per chiarire che la carta da pacchi la volevamo bianca, ma la linea era occupata. A mezzogiorno però, sbarcata in Sala Professori, ho trovato ad aspettarmi diciotto fogli di carta da pacchi a me indirizzati. Marrone, certo: mica sono indovini, in segreteria.
Ho raccolto i miei sei fogli prima di risalire in classe, e ho avvisato le colleghe - che sono rimaste assai piacevolmente sorprese.
In conclusione, e senza alcun aggravio da parte mia (i ragazzi mi hanno già rimborsato il foglio da me acquistato), adesso la classe possiede ben sette fogli di carta da pacchi senza che io ci abbia rimesso un sol centesimo; inoltre ho sviluppato una rinnovata fiducia nell'organizzazione della mia scuola, che riesce ad elargire in tempi brevi cospicue partite di carta da pacchi a semplice richiesta senza aspettarsi che paghi io.
Spero che le mie colleghe ci pensino su, la volta prossima, prima di mettere mano al portafoglio.

(Nota a parte: sono molto soddisfatta dei due profumi che ho scelto).

martedì 12 marzo 2013

Di classi e di alchimia (la Prima d'Ogni Grazia Adorna)

Com'è noto, nelle trasmigrazioni alchemiche un drago è sempre di grande aiuto (del resto, si sa che un drago è sempre di grande aiuto in tutto e per tutto)


La Prima d'Ogni Grazia Adorna è una classe piuttosto particolare, caratterizzata da un forte grado di apertura e di curiosità verso il mondo esterno. I suoi componenti provengono da situazioni sociali, culturali e pure etniche molto diverse, molti non si conoscevano prima di entrare in classe, eppure si è attuato subito una sorta di processo alchemico che l'ha trasformata rapidamente in una classe, esaltando le doti positive di ognuno e attenuandone gli aspetti più spigolosi. I gruppi che si erano formati in precedenza alle elementari si sono spontaneamente aperti, maschi e femmine collaborano senza fare storie, gli elementi più insoliti si sono prontamente integrati e perfino l'Emaginato di classe, Wasp, è emarginato in un suo modo tutto particolare che ne fa a tutti gli effetti una sorta di lievito. C'è in alto grado il gusto della sfida, prima di tutto con sé stessi, e il piacere del lavoro ben fatto, costi quel che costi. C'è anche una certa ansia da prestazione, che è andata comunque un po' attenuandosi (...spero).
Ogni tanto, nei primi mesi, ho provato a chiedere alle insegnanti che hanno formato le prime come mai avevano prodotto tal gioiello, ma mi è stato risposto che sulla carta era una classe di livello non molto alto e che loro avevano cercato di dividere onestamente gli alunni nel più equo dei modi tra le due classi a tempo normale. Non c'è stato nemmeno un particolare tentativo di favorire qualcuno, perché la maggior parte degli insegnanti sono comuni a tutte le classi, Matematica è stata raccattata con la seconda convocazione delle supplenze annuali e, per una particolare situazione legata ai nostri tempi scuola, nessuno era in grado di sapere esattamente a quale insegnante di Lettere sarebbe stata assegnata quella specifica prima; quanto a me, so benissimo di non aver fatto alcun tipo di pressioni, nemmeno implicite, non solo in virtù dei miei rigorosi principi morali ma anche e soprattutto perché, appunto, non avevo la minima idea di cosa mi avrebbero assegnato. Insomma, è venuta fuori da sola in questo modo perché sì. 

E infatti tra i genitori non sussiste il più vago avvio di alcun processo si trasmigrazione alchemica, come ho potuto constatare il giorno della consegna delle schede, quando si sono presentati tutti e mi sono accorta che, contrariamente a quel che avviene di solito tra le classi ben amalgamate, le famiglie sono di tutte le razze e di tutti i tipi, e in cospicua parte di razze e tipi piuttosto antipatici. Di solito, quando ho una particolare sintonia con una classe, questa sintonia si trasmette automaticamente alle famiglie e gli incontri con loro  si risolvono in un idillio in cui, dopo quattro chiacchiere amichevoli sui ragazzi, sono talvolta tentata di fornire té e pasticcini per poi avviare conversazioni amichevoli anche sulle nostre vite private e le Grandi Questioni dell'Esistenza. Lei crede in un dio immanente o trascendente? Che ne pensate delle ultime prese di posizione del PD*? Dove contate di andare in vacanza quest'estate? Come vi trovate con la nuova stufa a pellet?

Stavolta la sintonia è a livelli minimi, nonostante la cortesia formale, e in più di un caso non solo ho desiderato di tirare fuori il gatto a nove code, ma l'ho perfino fatto. Soprattutto, mi ha colpito la varietà di tipi genitoriali: ce ne sono veramente per tutti i gusti.

I Genitori Implacabili, prima di tutto: che storcono il naso davanti a una scheda dove la media è 7,80 e il voto di condotta è nove o dieci. Dovrebbe impegnarsi di più, mi dicono, noi avevamo voti più alti a scuola (lì è partito il gatto a nove code, con aspra richiesta finale di non rovinare l'ottimo rapporto che le loro creature mostravano di avere con l'apprendimento e la scuola in generale).
La Madre Che Ha Messo il Figlio Avanti Un Anno e ora si lamenta che il ragazzo non sempre si mostra completamente padrone della situazione (si è sorbita una tirata sui maschi che sviluppano più tardi delle femmine, e già la prima media è faticosa per una femmina, figurarsi per un maschio dell'età giusta, figurarsi per uno con un anno di meno, e controlli piuttosto che non sia troppo stanco).
La Madre-Bambina, decisamente portata dalla piena (per fortuna da tempo la figlia si gestisce da sola, con buoni risultati).
I Genitori Compiaciuti: sì, la creatura è un po' stanca, ma è lui/lei che vuole almeno 8 in tutte le materie (è possibile che sia vero. Ho scritto possibile).
La madre di Wasp, che è la madre di Wasp in tutto e per tutto e mi ringrazia tanto per l'attenzione che ho per il figlio, ma un accidente se in quattro mesi le è venuto in mente di parlare con qualche altro professore, o anche solo con me se non convocata. E almeno adesso ha imparato a fare la giustificazione quando il figlio è assente e bastano tre o quattro insistenze perché si dedichi alla compilazione del prezioso tagliando.
I genitori del Perfezionista, che accolgono la scheda con sollievo: "al 7 in italiano eravamo in qualche modo preparati, non dovrebbero esserci problemi. Ma se qui non ci fosse l'8 in Matematica avremmo avuto paura a tornare a casa, stasera" (il ragazzo a scuola è un modello di Sereno Spirito Sportivo, poi a casa dà in smanie se non ha preso 9. Almeno, così ce la raccontano).
La Madre Filosofica, che si domanda se poi il voto è davvero così indispensabile nella scuola - un tema interessante e molto bello, e se non fosse l'ultima scheda e io non avessi la febbre da tutto il pomeriggio ne parlerei volentieri, invece riesco a spremermi solo qualche banale frasetta sul fatto che è davvero riduttivo concentrare una cosa importante come l'apprendimento in un miserabile numerino (no, la ragazza ha una bella media e studia con impegno, e sono assolutamente d'accordo con la signora).
La madre di Ibn-al-Arabi, che ci ringrazia di aver pagato il corso di nuoto al figlio e mi spiega quanto è dolce il ragazzo (lo è davvero, anche se a scuola un po' rompe).
Le Famiglie Alternative, presentate in tono apocalittico dalle insegnati delle elementari, ma in realtà le ragazze stan venendo su benissimo anche se (o appunto perché) hanno un tocco, appunto, alternativo.
I Genitori dei Calciatori, tutta gente seria che fa festa davanti a un 7 e non ha niente nemmeno contro i 6/7 e si dichiara soddisfattissima perché i ragazzi vengono a scuola volentieri. Dio li benedica tutti quanti, è gente così che tira avanti il mondo.

Uno strano calderone. Ma i gioielli, talvolta, escono fuori dai crogiuoli più inaspettati.
All that is gold does not glitter...

*A St. Mary Mead votano tutti per quello, a livelli bulgari.

domenica 10 marzo 2013

Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato - Recensione del film (lunghissima e assai favorevole)



Guidare la navicella (ma forse, considerando le dimensioni del tutto, sarebbe più pertinente definirla una petroliera) dell'adattamento cinematografico dello Hobbit nel suo legittimo porto d'arrivo si è rivelato affare invero assai lungo e complesso, e in più di un momento anche i più ottimisti tra fan e produttori avevano visto scemare le loro speranze in proposito fin quasi alla totale scomparsa. 
Eppure, in un groviglio inenarrabile di compagnie di produzione sciolte e riformate, diritti d'autore comprati e rivenduti, progetti abortiti ma mantenuti in vita con l'incubatrice, registi (Guillermo Del Toro) e attori (Martin Freeman) che infine si rassegnavano e a malincuore salutavano dopo anni di lavoro e/o di attesa, alla fine le cose si sono incamminate (perché alla fine bisogna pur che si incamminino); e siccome nella vita le cose a volte si perdono, a volte si trovano e in certi casi si finisce per ritrovare perfino più di quel che si pensava di aver perso, ecco che gli spettatori si sono trovati tre film invece di due - che è una specie di primato, considerando che alla base di tutto c'è un romanzo di 350 pagine, più corto di ognuna delle tre parti che compongono il Signore degli Anelli; più un regista che è l'unico esperto di hobbit umani davanti alle telecamere (Peter Jackson); più Martin Freeman, che il regista è riuscito a tenere nonostante tutto, ricomponendo sulla base dei suoi impegni la complessa tabella di marcia della produzione dei film.
Insomma, finalmente il primo film Un viaggio inaspettato è approdato sugli schermi e in tanti ci siamo precipitati a vederlo, con le più varie speranze e aspettative.
Tralasciando quei comuni mortali, soprattutto giovanissimi, che sono andati al cinema mossi principalmente da spontanea curiosità e senza particolari prevenzioni e han giudicato in base al loro personale capriccio, il film è stato tampinato anche da due pericolosissime quanto vaste categorie: gli Orfani della Trilogia del Signore degli Anelli e i Fan Implacabili di Tolkien.
I primi sono una nera categoria di bieche creature che conoscono pochissimo i libri di Tolkien ma in compenso si sono mandati a memoria la trilogia dei film. Noi Fan Implacabili li guardiamo moooolto dall'alto in basso e ci schifiamo assai quando ci accorgiamo che non conoscono nemmeno nozioni elementari come i quattro nomi di Gandalf o quelli dei padri dei quattro hobbit, dimostrando così  un'ignoranza davvero inconcepibile; sono quelli che si lamentano che nello Hobbit Gran Burrone appare troppo illuminato (sorvolando sul fatto che a Gran Burrone le stagioni passano e anche lì d'estate c'è più luce che in inverno) e che certi nani non hanno abbastanza barba.
I secondi... sì, appunto, sono quelli che si ricordano a memoria i re di Rohan delle due linee di tumuli, i padri dei padri dei padri dei protagonisti, i nomi di tutti i luoghi della Terra di Mezzo in non meno di due lingue e che cosa dice Gimli nel terzo capitolo del secondo libro della Compagnia dell'Anello quando commenta con Aragorn il tempo sulle montagne. Sono quelli che sanno che Legolas dovrebbe avere i capelli neri (forse) e che Thorin è più vecchio di Balin. Una razza perfino peggiore di quella degli Orfani, se devo essere sincera; implacabile quanto incline alla mormorazione, pronta a deplorare sia le insalatine di Gran Burrone (gli elfi non sono affatto vegetariani, tanto meno vegani) sia la contrarietà del Bianco Consiglio davanti alla spedizione di Thorin (ma quando mai?!).

A tutti gli effetti io rientro nella seconda categoria: possiedo una solida conoscenza del corpus tolkieniano che mi permette di stabilire quando nel film una data frase è stata spostata da un punto all'altro della vicenda e ho guardato abbastanza dall'alto in basso la trilogia (per quel poco che l'ho guardata) pur ammettendo che è senz'altro degno della massima meraviglia e ammirazione il fatto che qualcuno si sia imbarcato in un'impresa epica come quella di filmare il Signore degli Anelli e addirittura sia stato capace di portare a termine l'immane cimento, per giunta uscendone vivo e traendone perfino qualcosa di accettabile.
Il mio legame col romanzo Lo Hobbit è comunque molto più leggero, e insomma sono entrata al cinema con animo aperto e disponibile, pronta a prendere le cose come venivano.
La prima cosa che ho dovuto prendere, in effetti, sono stati gli occhiali da 3D, per la prima volta in vita mia - e solo il mio sconfinato amore per Tolkien mi ha potuto indurre a un passo simile. Siccome ho visto il film per tre volte, ma sempre in 3D, non ho idea se in 2D è meglio (l'avrò, immagino, al momento dell'acquisto dei DVD, perché mi rifiuto di contemplare l'ipotesi di acquisto di uno schermo apposito per il 3D) e nemmeno sono in grado di dire se la nuova tecnica a 48 fotogrammi al secondo cambi davvero le cose: ho infilato gli occhiali e mi sono tuffata nella storia e questo è quanto. A tratti, lo ammetto, le figure mi davano la strana impressione di stare in una di quelle palline di vetro con il paesaggio e la neve dentro, ma è stata una sensazione di pochi istanti qua e là. Il film mi ha avvolto nella sua nuvola magica per depositarmi, stanca, del tutto soddisfatta e un po' scossa, due ore e quaranta minuti dopo. Non ci ho trovato nulla di noioso, sia nella prima parte più lenta che nella seconda più movimentata. Così come l'ha fatta Jackson, la storia mi è andata benissimo.

Come sempre nel Tolkien di Jackson i paesaggi recitano benissimo, direi in modo spettacolare: Casa Baggins non la saprei immaginare diversa, la Contea è incredibilmente conteeggiante, il regno dei  nani squisitamente nanesco, i paesaggi molto tolkieniani e Bosco Atro atreggia nel migliore dei modi.
Tutti si sono commossi in modo indicibile davanti al raccordo con la trilogia, ovvero la scena introduttiva tra il Vecchio Bilbo e Frodo. Io no. Di Frodo, al momento, non mi importava un accidente, e il Vecchio Bilbo è ai miei occhi una contraddizione in termini: i Grandi Anelli fermano l'invecchiamento, dunque Bilbo dovrebbe essere uno solo, ovvero quello ampiamente adulto ma niente affatto vecchio che partecipa all'avventura - all'incirca di 35 anni su scala umana e 50 per l'anagrafe hobbitiana; e adesso rimpiango molto che la scena dove Bilbo racconta a Gandalf che si sente osservato dall'Anello e gli pare di essere del burro spalmato su una fetta di pane troppo grande non sia stata  fatta da Martin Freeman. Sì, lo so, Ian Holm è un grandissimo attore e ha fatto bene la sua parte - ma Martin Freeman è Bilbo e non dovrebbe esistere alcun Bilbo all'infuori di lui. Inoltre l'idea che proprio il giorno prima della Grande Festa Bilbo si decida a iniziare a scrivere il celebre Libro Rosso mi sembra abbastanza fuori dal mondo, ma se tutti gli altri son contenti, allora sono contenta anch'io per loro - e poi mi ha fatto piacere vedere Frodo che sorrideva, visto che nella trilogia non ha molte occasione per farlo.

Jackson ha detto che gli riusciva difficile immaginare i film dello Hobbit senza Martin Freeman, e lo capisco perfettamente. Ho letto quattro volte il romanzo, ho perso il conto delle letture del Signore degli Anelli (dove non mi ero mai ben spiegata, in verità, perché i quattro hobbit facessero tanto conto di Bilbo Baggins) e mai avevo compreso davvero il personaggio fin quando Freeman non l'ha portato sullo schermo.
In principio era Bilbo Baggins. Tutta la storia nasce da lui e, per via secondaria, dal fatto che non volle colpire senza necessità una creatura piagnucolosa e insopportabile che fino a pochi minuti prima meditava apertamente di mangiarselo intero e crudo. Bilbo deciderà più volte il destino della Terra di Mezzo, senza averne l'aria, spesso senza saperlo, ma sempre in base a scelte rigorosamente etiche e consapevoli.
Un personaggio così minimale e borghese e sorridente può stroncare un attore peggio di un Grande Ruolo Shakespeariano, oppure può calzare come un guanto, senza sforzo apparente, e allora diventano perfettamente in carattere perfino certi improbabili proclami sull'opportunità di aiutare chi ha perso la sua casa a ritrovarne una.
Bilbo Baggins non è solo un educato gentilhobbit di campagna attratto suo malgrado dalle avventure - che pure sono cose scomode che fanno fare tardi a cena: dietro la sua gentilezza quasi inalterabile vive un personaggio molto diverso dai nani, ma anche completamente estraneo dai meccanismi consueti che vincolano gli eroi, gli antieroi e gli eroi-loro-malgrado che riempiono la maggior parte dei film e dei romanzi non solo contemporanei.
Bilbo Baggins non è solo uno dei tanti hobbit, è lo hobbit per eccellenza. Qualcuno si è lamentato che il personaggio sia stato costruito assemblando un po' di caratteristiche da ognuno dei quattro hobbit della trilogia, ma in realtà è vero l'opposto: i quattro hobbit nascono per diffrazione da Bilbo, pur vivendo di vita propria nel romanzo più lungo. E con tutto ciò Bilbo contiene ancora delle caratteristiche sue personali, che il film ha mantenuto (e del resto, la trasposizione degli hobbit è stata piuttosto fedele anche nella trilogia).
Esempio veloce: quando Gandalf gli offre la spada la trova bella, ma gliela rende subito indietro dicendo che "non può prenderla". Per invogliarlo, Gandalf gli spiega che la lama diventa azzurra in prossimità di orchetti e goblin. Bilbo prova a tagliar corto spiegando che non ha mai usato una spada in vita sua - a bassa voce, che non arrivi qualche nano a spiegargli quant'è importante girare ben armati per le Terre Selvagge. Galdalf allora sposta la questione: ma certo, speriamo tu non debba usarla mai... ma qualora il disgraziato caso si presentasse, ricorda che il vero coraggio non è nel sapere quando prendere una vita, ma quando risparmiarla. Bilbo annuisce, pensieroso, poi guarda per la prima volta la spada con vero interesse, come se avesse avviato una riflessione completamente nuova. E la tiene.
Per la cronaca la spada è Sting (all'epoca della pubblicazione del romanzo non ancora un rinomato quanto eccellente musicista) ovvero il tagliacarte più utile, più versatile e più affidabile di tutta la storia della letteratura occidentale; ma ci sarà occasione di parlarne meglio nel secondo film.

Tre film da spremere da un romanzetto sono veramente troppi, era stato il lamento universale. Ma, a conti fatti, tre film sembrano proprio la lunghezza giusta, soprattutto se si decide di fare qualcosa di diverso da una trascrizione un po' affrettata (che del resto era già stata fatta anni fa a cartoni animati e non era nemmeno venuta troppo male).
Lo Hobbit era nato come romanzo per bambini, ma da quando ne aveva iniziato a scrivere il seguito Tolkien aveva cominciato a guardarlo con occhi diversi e a porsi un sacco di domande. Ne erano nati una revisione piuttosto radicale dell'incontro con Gollum, una corposa appendice del Signore degli Anelli dedicata ai nani, con particolare riferimento alla stirpe di Thorin, e qualche scritto rimasto a lungo inedito dove Gandalf raccontava la cerca di Erebor dal suo punto di vista. Il romanzo per bambini era così diventato sempre più il prequel della Guerra dell'Anello. La saldatura però non era mai stata completata e per molti di noi lettori, soprattutto quelli che avevano iniziato leggendo il Signore degli Anelli, lo Hobbit risultava in qualche modo stonato.
Cercando di riavvicinare i due romanzi nell'atmosfera, Jackson ha fatto secondo me un'opera meritoria, tanto più che per il momento sembra pure essergli riuscita. Di fatto è proprio qui che cominciano le infinite lamentele dei critici, dei tolkieniani e pure dei fan della prima trilogia. Intendiamoci: la maggior parte degli spettatori ha apprezzato il film e molti hanno aperto bocca solo per chiedere un secondo e un terzo biglietto onde rivederselo più volte e meglio apprezzarlo; e costoro non hanno sciorinato lunghe liste di lamentele. Ma siccome è notoriamente impossibile contentare tutti, e stante che i critici, se non criticassero, li chiamerebbero plaudenti o probanti o qualcosa del genere, ci sono state un'infinità di lamentele sulle più svariate questioni, a torto o a ragione (ma anche qualche occasionale recensore che ha apprezzato).

Punto primo: il film non è abbastanza epico: non c'è più la Terra di Mezzo da salvare, ma solo un regno da riconquistare e un drago da uccidere (no, capite, solo un drago. Mica è materiale epico, un drago. D'accordo, per il momento il drago non si è ancora visto, tuttavia qua e là qualche spunto epico a me è sembrato di intravederlo. Possibile che, al giorno d'oggi, se non scomodi come minimo il Bene e il Male e il Futuro del Mondo non ti lascino più nemmeno scrivere una commedia d'amore?).
Punto secondo: il film è troppo comico, con tutti quei nani così fuori dalle righe. Perché andava benissimo perculare per tre film a fila l'assai stimabile Gimli (uno dei miei molti personaggi preferiti del Signore degli Anelli) onde conferire un tocco di "comicità" alla trilogia, ma se hai a disposizione tredici nani tredici allora no, devono essere tutti e tredici seri, solenni e immusoniti. 
Inutile provare a ribattere che, se proprio vogliono un nano serio e solenne, c'è Thorin Scudodiquercia che se la tira nel più filologico dei modi dall'inizio alla fine del film (e si suppone lo farà anche nei prossimi due), ed essendo interpretato pure lui da un eccellente attore (Richard Armitage) riesce nella miracolosa impresa di tirarsela in modo incredibile, sì, ma fermandosi sempre un capellesimo di millimetro al di qua del ridicolo. 


Una delle pietre dello scandalo: il nobile Thorin Scudodiquercia - spesso inquadrato dal basso verso l'alto, così se la tira meglio

Nossignori, neanche Thorin Scudodiquercia va bene: intanto è troppo presente e oscura Bilbo, poi non ha abbastanza barba e infine assomiglia troppo ad Aragorn. 

Per la poca barba, col tempo è stata presa per buona la spiegazione del regista, stando al quale Thorin è un re in esilio e non si sente all'altezza di avere una gran barba (una cosa che Jackson si è cavato dalla testa, perché nel romanzo Thorin la barba ce l'ha, e anche bella lunga). Ma c'era il problema che anche i due giovani nipoti di Thorin, i carinissimi Fili e Kili, avevano poca barba, anzi Kili ne era praticamente privo - e, peggio di tutto, sembrava un cantante da boy band. Insomma, orrore degli orrori: nella compagnia di Thorin Scudodiquercia c'erano un Nano Carinissimo, che avrebbe fornito il fan service per le spettatrici più giovani, e un Nano Carismatico, ovvero Thorin in persona, dai languidi occhi bistrati e per di più dotato di una spettacolare voce da basso (che usa senza ritegno per corteggiare lo hobbit) che avrebbe fornito il fan service per le spettatrici più cresciute - e anche per qualche spettatore, volendo). In più c'era Fili, anche lui tutt'altro che inguardabile.
Insomma, dove andremo a finire? Un nano deve essere un cesso, no? E' stabilito per contratto, giusto? E soprattutto: deve essere un cesso con molta barba.


ed ecco le altre due pietre (preziose) dello scandalo, ovvero Fili e Kili 

Qualcuno è arrivato perfino al punto di criticare il fatto che Kili usi l'arco, che non è un'arma da nani - prontamente smentito da chiunque avesse letto lo Hobbit almeno una volta in vita sua: i nani tirano d'arco, eccome, e non solo i due giovinetti della compagnia.


Poi c'è il lamento di chi sostiene che i nani restano una massa indistinta sullo sfondo, a parte Thorin, nonostante l'impegno profuso nel dare ad ognuno di loro un'acconciatura particolare. Tuttavia, facendo un po' di conti, alla fine del film qualche nome dovrebbe restare impresso, a parte Thorin: ci sono Fili e Kili che cantano nella boy band, Balin (figlio di Fundin e futuro signore di Moria, per un breve periodo) 



che fa il Vecchio Saggio della compagnia e che anche nel libro emerge, nella terza parte; Gloin che ha la stessa immane quantità di pelame rosso che 



caratterizzava Gimli nella trilogia, più Bombur che si riconosce bene per la stazza (proprio come nel libro).



Gli sceneggiatori si sono dati da fare, anche se non (ancora) per tutti: e abbiamo Ori, il nano terribilmente educato 



("Scusate, mi dispiace interrompervi, ma dove dovrei mettere il mio piatto?") a parte quando si ripromette di infilzare Smaug dalla parte posteriore - proposito invero assai più facile da esprimere che da realizzare nel concreto; e Bofur, caratterizzato da un demenziale cappello in pelliccia con le alette: 



un nano piuttosto pragmatico ma gentile d'animo, che spiega a Bilbo nei dettagli cosa è un drago ("Pensa a una fornace con le ali") e che fin dall'inizio si affeziona a quella specie di mascotte che per volontà di Gandalf la compagnia si porta dietro. Siccome è l'unico che con Bilbo avvia un discorso serio, è anche quello che si becca l'unica frase sgarbata che il gentilhobbit rivolge a un nano in tutto il film "Voi non potete capire perché siete nani e per voi vivere come vagabondi è normale" - ma invece di mandare al diavolo Bilbo dopo quell'uscita, lo comprende e gli augura pure buona fortuna in una delle scene più struggenti.
Sette nani su tredici individuati al primo film mi sembrano una percentuale accettabile. Naturalmente chi è stato attento e diligente e si è ben documentato in rete li riconosce a colpo sicuro tutti e tredici, mentre chi si è limitato a seguire il film senza farne una questione di stato (ovvero il 95% degli spettatori) ha individuato solo i tre nani carini e ha memorizzato a livello inconscio quello con la barba bianca biforcuta e quello con lo strano cappello di pellliccia con le ali che augura buona fortuna a Bilbo. Di fatto basta e avanza, perché la maggior parte dei nani svolge la funzione di coro: non siamo nella Compagnia dell'Anello, dove ognuno ha la sua storia, è la compagnia di Thorin Scudodiquercia, che i nani non si azzardano mai a contraddire, nemmeno quando pensano (o penseranno) che abbia torto.

Qualcun altro si è poi lamentato che i nani cantassero troppo, trasformando il film in un musical.
Il punto è che le cosiddette canzoni del musical le aveva scritte Tolkien in persona, insieme a svariate altre decine che pullulano per ogni dove sia nell'Hobbit che nel Signore degli Anelli. Evidentemente il professore non trovava niente di scandaloso nel canto di per sé, né lo trovava contrario allo spirito dell'epica (il tutto anche tralasciando l'infinitesimale dettaglio che la letteratura epica nasce appunto come poesia cantata un po' in tutte le culture). In italiano, o meglio nelle attuali traduzioni italiane, le canzoni di Tolkien sono quasi tutte orribili. Lette in inglese, anche appoggiandole ad una semplicissima base ritmica, fanno già un effetto completamente diverso. Ai tempi della trilogia  venne deciso di non giocare quella carta, con mio grande dispiacere - e così ogni film di 007 dalla notte dei tempi ha avuto la sua canzone in testa alle classifiche, ma nella trilogia dal Signore degli Anelli le canzoni sono ben poche, e quasi tutte rimpiattate al momento dei titoli di coda.
Nel film dello Hobbit le canzoni sono tre - o meglio, tre frammenti. Il primo è una specie di danza irlandese che accompagna i nani mentre rimettono in ordine la casa di Bilbo, minacciando nel contempo di fare grandissimi disastri. Dura meno di un minuto, copre solo due strofe e purtroppo non ne esiste al momento una versione completa, nemmeno nel CD della colonna sonora. La sincronia tra la musica e i movimenti dei nani è squisita - la classica scena che non ci si stanca mai di vedere.
La seconda canzone, dedicata al perduto regno di Erebor, è avviata a cappella da Thorin, con gli altri nani che si uniscono via via. Viene eseguita nella penombra del corridoio di casa Baggins ed è solo l'ultimo atto della lunga manovra di seduzione con cui il povero hobbit viene sistematicamente intrappolato. Dalla stanza da letto dove si è rifugiato Bilbo ascolta, con l'aria sofferente e lo sguardo affamato della piccola fiammiferaia che ammira la vetrina della pasticceria la vigilia di Natale (chi mai può resistere a tredici nani che nella notte ti promettono fiamme, morte e distruzione in alternativa alla tua comodissima tana hobbit? Non Bilbo, di sicuro).
Si tratta insomma di un pezzo che svolge una precisa funzione nell'impianto narrativo: quando le parole hanno fatto il loro lavoro si passa al linguaggio della musica, perché spieghi quel che non è stato possibile dire. In un'intervista, Armitage ha detto che si è servito di quella canzone per trovare la voce di Thorin; per quel che mi riguarda, avrebbe dovuto servirsi di quella canzone anche per cantarla tutta, fino all'ultima strofa.

...la terza canzone la canta il capo dei goblin. Sì, sono d'accordo, anche senza è ben possibile che il mondo sarebbe riuscito ad andare avanti in qualche modo, e il film pure. Anzi, dal canto mio mi sarei rassegnata di buon grado  a fare a meno di quasi tutta la parte del combattimento nella montagna - Jackson ci va pazzo, per queste interminabili scene di combattimento nelle viscere dei monti,  ma io no.


E veniamo alla Grande Critica, ovvero la Critica delle Critiche: perché pensate che c'è stato
perfino qualcuno così sconsigliato e malfidato da osare dire che...
...ebbene sì, che gli intrecci del Signore degli Anelli e dello Hobbit si somigliano. Il peggio è che questi Qualcuni che hanno osato dirlo han pure ragione: esiste addirittura una scuola di pensiero che sostiene che Tolkien si è limitato a scrivere due volte lo stesso romanzo - e, in tutta onestà, non è nemmeno una scuola di pensiero con cui mi trovi in particolare disaccordo. 
Inutile negarlo: si parte dalla Contea, incontro con i troll, tappa a Gran Burrone, poi un sacco di scomodissime montagne ti inghiottono e ti risputano fuori dopo avertene fatte di tutte e per giunta ci incroci Gollum, che non è mai il massimo come compagnia, un po' di elfi, un po' di ragni, qualche lupastro, un viaggio sul fiume, aquile che arrivano alla fine della battaglia, la rinuncia a Qualcosa di Prezioso, un re in cerca di corona...
E infatti arrivati al re in cerca di corona molti si sono lamentati della mancanza di originalità... di Peter Jackson - il che mi sembra un tantino ingiusto; senza contare che, anche se Tolkien su questa storia del re senza corona che la rivuole indietro si era un po' fissato (in fondo anche Sauron vuole solo riprendersi il suo regno, povera stella) di sicuro i suoi re senza corona sono diversi tra loro e per trovare delle somiglianze tra Thorin e Aragorn - che sia l'Aragorn di Tolkien o quello di Jackson non importa - ci vuole, secondo me, una certa tendenza ad appiattire intrecci e personaggi.
E dunque un vago senso di deja-vu qualcuno l'ha lamentato. A ragione. E infatti buona parte dei luoghi sono quelli, le storie si somigliano... e alcuni personaggi sono proprio gli stessi. Gandalf, per esempio. Differenza di atmosfera o meno, nessun lettore rischia di perdersi, con Gandalf: come lo lasci nell'Hobbit, così lo ritrovi nel Signore degli Anelli - stesso vestito, stesse sopracciglia, stesso cappello a punta... stesso attore, naturalmente, e nonostante i dodici anni di età in più che si ritrova sulle spalle Ian McKellen sembra perfino più energico e più squisitamente misterioso. C'è anche un Gollum in forma smagliante (per quanto Gollum possa essere in forma smagliante, certo: un mucchietto di ossa lamentose e uno sguardo molto affamato) mirabilmente interpretato dallo stesso attore della trilogia, o almeno così ci hanno garantito, ma per quel che se ne vede, al posto di Andy Serkis potrebbero averci messo anche Brad Pitt. E poi a Gran Burrone c'è Elrond, che per fortuna è molto meno antipatico e aggressivo che nella trilogia.
Anche una parte della colonna sonora della trilogia è sopravvissuta: il tema delle aquile, della Contea, di Gran Burrone... e che colpa ne ha Howard Shore se anche nello Hobbit ci sono la Contea, le aquile eccetera eccetera eccetera? Sta di fatto che nella trilogia la colonna sonora (a suo tempo universalmente apprezzata) mi aveva lasciato del tutto indifferente, mentre stavolta ne ho goduta e apprezzata ogni nota.

Anche se la sceneggiatura è stata ritenuta all'unanimità molto fedele, ci sono stati degli ampliamenti, qua e là, delle modifiche e perfino dei tagli, oltre a delle integrazioni. Queste ultime sono state tratte esclusivamente dalle Appendici del Signore degli Anelli, e in particolare da quella dedicata ai nani "Il popolo di Durin" (anche se gli inesperti e gli incolti straparlano di aggiunte prese dal Silmarillion, da dove in verità non sarebbe possibile estrarre una sola riga su Erebor nemmeno mettendoci il massimo dell'impegno); si è molto dibattuto e criticato sul fatto che Azog dovrebbe essere morto da un bel po' di anni e sul perché sia stato inserito nel film, ma non è questione cui riesca ad appassionarmi: nel film Azog è solo il solito, insulso e cattivissimo orco che fa onestamente il suo mestiere di insulso e cattivissimo orco, e avere lui o un altro in tale insulso ruolo è per me del tutto indifferente. E' probabile però che avremo ampie spiegazioni a riguardo nel secondo film, così come darei per sicuri anche cospicui flashback sullo sventurato Thrain (padre di Thorin) e sulla sua tragica storia - insomma Gandalf racconterà nei dettagli come ha avuto la mappa e la chiave. Quanto ai brani dei Racconti Ritrovati, al momento non sono stati citati, si presume che mai lo saranno, ma hanno lasciato un'impronta piuttosto visibile nella sceneggiatura. Per chi è in grado di vederla, certo.

Il ruolo delle aquile è stato piuttosto ridimensionato, anche se i pochi minuti che  vengono loro dedicati sono davvero spettacolari; qualcuno ha deprecato, non del tutto a torto, come, una volta di più, siano state ridotte ad aerotaxi (le famose Gwaihir Airlines) e mi rimane un certo rimpianto per non avere assistito al soggiorno della compagnia nei nidi della aquile, con tanto di barbecue offerto agli ospiti. Mi rendo conto che la trama era stata incastrata in un modo che rendeva difficile infilarci anche quello, però il Signore delle Aquile era comunque un personaggio interessante. Tuttavia è possibile che la scena venga recuperata in futuro, perché il romanzo prevede un'altra comparsa di queste maestose e  alate creature.

La scena del combattimento dei giganti di pietra (assai più drammatica che nel libro, visto che i due personaggi principali rischiano seriamente di lasciarci la pelle) è stata per molti una sorpresa: le poche righe dedicatele sfuggono facilmente - io stessa l'ho notata per la prima volta nella lettura fatta in classe quest'anno. Molti si sono quindi scagliati lancia in resta contro cotal inutile aggiunta... per poi scoprire che nell'angolino ben nascosto di un capitolo c'era qualche riga d'appoggio che non la rendeva affatto un'aggiunta.


Sullo stregone Radagast, presentato assai di striscio come piuttosto stravagante nel Signore degli Anelli e nominato ancor più di striscio nell'Hobbit, si è aperto un accanito dibattito. Gli sceneggiatori ne hanno fatto un personaggio decisamente insolito, tutt'altro che tolkieniano e con un tocco new age abbastanza surreale, e il risultato è una larga schiera di imbestialiti detrattori e una altrettanto vasta schiera di apprezzamenti. A me è sembrato che si incastrasse molto bene nell'insieme, lui e la sua slitta trainata dagli intrepidi conigli di Rhosgobel, e che fosse il custode più adatto per Bosco Atro. La sua sintonia col mondo animale ne fa un personaggio dall'apparenza ridicola e dalla sostanza molto profonda, quasi mistica, che mi ha ricordato certe storie di santi orientali che accettano di trasformarsi e immobilizzarsi con le mani in forma di nido d'uccello per non disturbare i loro piccoli ospiti. Il fatto che Gandalf lo prenda molto sul serio, al contrario del pedantissimo (e forse già corrotto) Saruman, è un tratto, questo sì, assolutamente e filologicamente tolkieniano. E poi l'inseguimento dei lupi mannari che cercano invano di raggiungere i velocissimi conigli battendo delle grandiose craniate nella roccia mi ha divertito molto, e checché se ne possa dire è una scena molto epica (perché non sta scritto da nessuna parte che una scena epica non possa essere anche molto buffa).
La prima avventura della compagnia, ovvero l'episodio dei troll, è stato ritoccato (assai opportunamente, a mio avviso) in modo da 1) evitare che Thorin e Bilbo si comportino da assoluti mentecatti e 2) mostrare per la prima volta, in netto anticipo sui tempi del libro, che lo hobbit non è solo una simpatica creaturina amante della buona tavola e totalmente indifesa, ma al contrario dispone di un eccellente istinto di conservazione che si risveglia nei momenti più opportuni.

La maggior parte delle modifiche riguardano l'apprendistato da eroe di Bilbo e il suo rapporto con Thorin; il quale Thorin è un po' diverso rispetto al romanzo, ma abbastanza simile a come viene descritto nelle Appendici. Averlo ringiovanito e reso meno pedante è stata una scelta felice: le caratteristiche di base sono state mantenute ma lo spettatore (o la spettatrice) è molto più disponibile a simpatizzare con lui, e questo nel terzo film potrebbe fare una certa differenza.

L'evoluzione di Bilbo, hanno spiegato in parecchi, nel film cambia, nel senso che lo hobbit diventa eroe molto prima di quanto avviene nel libro - dove il punto di svolta viene normalmente individuato a Bosco Atro, con i ragni. 
Ora, non c'è dubbio che nella prima metà del romanzo Bilbo dimostri lo stesso spirito di iniziativa di un pacco postale e si limiti a fare quel che gli dicono di fare fin quando, rimasto da solo a Bosco Atro e trovandosi circondato da enormi ragnacci animati da pessime intenzioni, è infine costretto a sbrigarsela da solo.
Se però guardiamo la storia da una prospettiva diversa, dopo avere letto (o scritto buona parte de) il Signore degli Anelli (e ricordando che oggi leggiamo lo Hobbit con l'incontro con Gollum riscritto da Tolkien nel 1951il vero punto di svolta è appunto l'incontro di Bilbo con Gollum e con l'Anello, quando lo hobbit riesce non solo a salvarsi da una situazione decisamente critica, ma dimostra di possedere il "vero coraggio" di cui gli ha parlato Gandalf, riconoscendo il momento di risparmiare una vita invece di prenderla. Di fatto, aver risparmiato la vita di Gollum, ovvero non aver voluto colpire senza necessità, è la prima azione eroica compiuta da Bilbo.
Lo hobbit che entra nelle montagne è diverso da quello che ne esce, e quell'uscita arrischiata in cui perde tutti i bottoni è, a tutti gli effetti, una rinascita. Alla questione dei bottoni Jackson deve aver dato il giusto peso, perché guardando la scena improvvisamente è riemerso nei miei ricordi un saggio di Matthews letto più di venti anni fa e da allora  del tutto dimenticato, dove tra l'altro si spiega come l'uscita fuori dalle montagne sia una specie di nuovo parto che Bilbo attraversa. All'epoca l'analisi mi sembrò forzata, ma adesso sono convinta che Matthews avesse perfettamente ragione.

Tolkien riscrisse solo il quinto capitolo, lasciando il resto del romanzo così com'era. Pare che ci fossero stati dei fraintendimenti con l'editore, e che davanti ai suoi tentativi di riscrittura chi era intorno a lui si fosse lamentato che quello non era più lo Hobbit - ma insomma resta il fatto che venne riscritto solo il quinto capitolo. Infatti nel romanzo, dopo essersi mirabilmente ri-partorito, Bilbo riprende il suo cammino con la compagnia animato dal solito spirito di partecipazione da pacco postale che lo caratterizzava anche prima, limitando i suoi interventi all'avere una gran paura nei momenti più indicati a ciò.
Nel film c'è un cambiamento piuttosto visibile: anche se la sequenza della trentina di ore che intercorrono tra la battaglia dei giganti di pietra e lo scalo delle Gwaihir Airlines è piuttosto compatta e non lascia allo spettatore molto tempo per delicate analisi psicologiche resta il fatto che, uscito dalla caverna, Bilbo affronta Thorin vincendolo di cortesia, inaugura il tagliacarte uccidendo il suo primo lupo mannaro, salva Thorin con un balzo acrobatico che possiamo tranquillamente definire molto arrischiato e infine uccide un paio di orchi prima di essere assai opportunamente salvato dalle aquile.
Insomma, dentro le montagne lo hobbit si è guadagnato lo status di eroe e come tale comincia a comportarsi quando gli sembra che le circostanze lo richiedano; quindi forse non è esatto dire che Jackson ha anticipato le trasformazioni dello hobbit, quanto piuttosto che ha riscritto in parte la storia basandosi sulle direttive implicite di Tolkien (e secondo me ha fatto benissimo).
Sempre sulla questione dell'eroismo di Bilbo, molto è stato scritto e detto per criticare la scena in cui salva Thorin, che è stata giudicata  innopportuna e fuori carattere, perché Bilbo nel romanzo usa spesso il suo tagliacarte, ma quasi mai in veri e propri combattimenti (al contrario di quel che faranno Frodo e Sam nel Signore degli Anelli) e le sue prove di coraggio si svolgono (quasi) sempre in solitudine. Tuttavia, al di là delle questioni legate al gusto per le americanate o alle concessioni al pubblico meno raffinato, il coraggio degli hobbit ha come caratteristica quello di risvegliarsi all'improvviso nelle situazioni più disperate (ad esempio quando Merry attacca il Re degli Stregoni per difendere Eowyn) e la presenza o assenza di testimoni non è di per sé rilevante: quando Frodo usa per la prima volta Sting la Compagnia è nelle fauci della Camera di Mazarbul, e testimoni (e lodi) non ne mancano. Diciamo che gli hobbit usano la spada (e/o diventano eroici) quando la situazione si presenta talmente critica da rendere il loro intervento una follia - altrimenti sono ben lieti di lasciare l'uso delle armi e l'eroismo a chi è più competente e capace di loro. L'intervento di Bilbo è senz'altro rischioso fino all'incoscienza, e d'altra parte in quel momento la situazione di Thorin sembra disperata: le premesse per una tipica dimostrazione di coraggio hobbit ci sarebbero tutte, dunque, senza contare che la scena mi è molto piaciuta e quindi sono portata a difenderla.

Il rapporto tra Thorin e Bilbo è complesso e occupa una buona parte del film, diventandone uno dei temi portanti. Qualcuno ci ha visto da parte di Bilbo il desiderio di ottenere l'approvazione di una figura paterna, facendo un parallelo tra Faramir e Theoden, dove Thorin sarebbe la parte paterna. L'ho trovata un'interpretazione piuttosto sorprendente, anche perché nel film entrambi sono presentati come adulti e la differenza di età tra loro è stata piuttosto ridotta rispetto al romanzo (secondo le Appendici Thorin avrebbe 195 anni, che ne fanno un nano in piena maturità ma ormai a pochi passi dalla vecchiaia) né l'attaccamento tra i due mi è sembrato particolarmente paterno o filiale. E non mi sembra esatto nemmeno dire che i due non si capiscono: Bilbo capisce benissimo Thorin (che lo approvi completamente è un'altra storia), mentre Thorin ha delle notevoli difficoltà strutturali a capire Bilbo proprio perché la weltanschaung nanica non è delle più flessibili, mentre quella di un hobbit è flessibilissima per natura. Di fatto questo non impedisce ai due di amarsi, ma in un modo che non è (e, si presume, non sarà) né semplice né indolore. La mia impressione è che il tutto sia stato costruito dagli sceneggiatori in funzione di quello che nel libro è il penultimo capitolo. Ci sarà comunque tempo per riparlarne.

Il film si chiude con un colpo d'occhio (mai definizione fu più esatta) di Smaug il Terribile sul suo grandioso letto d'oro; anzi, più esattamente, nel suo grandioso letto d'oro. Dal momento che, giusto in questi giorni, l'incasso ha superato il miliardo di dollari mi sembra una scelta davvero azzeccata.

venerdì 8 marzo 2013

Trilogia di Millenium - Stieg Larsson



Ho scelto questa trilogia per l'8 Marzo perché uno dei temi centrali dei libri è la violenza, soprattutto ma non solo sessuale, che gli uomini usano contro le donne. Non tutti gli uomini, certamente: solo una piccola parte, che viene però per questo aspramente criticata e punita non solo dalle donne, ma anche da molti uomini che vivono con autentica ribellione i torti che scoprono essere inflitti all'altro sesso. Sotto questo aspetto i libri riprendono, talvolta con accenni espliciti, certe strutture da romanzo cavalleresco, con la variante che le principesse da aiutare si mostrano tutt'altro che prive di iniziativa o di capacità di farsi valere e che ai cavalieri si affiancano anche alcune agguerrite cavalleresse.

Qualche anno fa questa trilogia è stata un caso editoriale, con milioni di copie vendute ovunque; io però l'ho letta soltanto quest'inverno, non tanto per diffidenza verso i best seller (che di solito apprezzo moltissimo) quanto perché, essendo appunto un grande successo, in biblioteca non si riusciva mai a raccattarne una copia.
Sono romanzi lunghi ma scorrono molto bene; inoltre Larsson ha il dono di tenere il lettore incollato alla pagina e anche quello, molto più prezioso, di non lasciarlo deluso quando i libri sono finiti. Nel terzo (pubblicato subito dopo la sua morte, quindi forse a revisione non del tutto completa) si sente in certi punti la mancanza di qualche colpo di forbici, nei punti dove ci si occupa delle sottotrame. 

La vicenda è ambientata in Svezia, intorno al 2005. Attraverso il racconto si intravede un ricco affresco della società svedese: vita quotidiana, politica, giornalismo, arredamento, cucina, carceri...  Per chi, come me, ha sempre visto la Svezia come una specie di Eldorado, è una lettura agrodolce dove enormi ondate della più verde invidia si alternano a struggenti lamentazioni del tipo "perché da noi invece è tutto così disperatamente opaco, limaccioso e scomodo?".
C'è dentro molta politica (anche se ufficialmente il protagonista non ha interessi politici e nemmeno va a votare), un pizzico di storia e una bella struttura a base di oscuri complotti di servizi segreti deviati, spionaggio e malavita internazionale. Perché una storia del genere sia venuta in mente ad uno scrittore svedese, che se l'è dovuta costruire pazientemente pezzo per pezzo, quando noi italiani in intrighi di questo tipo di intrecci ci viviamo a colazione, pranzo, cena e pure all'ora di merenda davvero non so. Comunque è andata così.

Nel primo romanzo Mikael Blomqvist, che sta attraversando un momento professionale piuttosto critico, accetta la proposta di un anziano industriale di rifugiarsi per un anno a casa sua, ben retribuito, per indagare su un delitto di qualche decennio prima. L' l'impresa sembra disperata, e lo stesso Mikael cerca più volte di convincere l'anziano industriale a lasciar perdere; e invece il delitto verrà risolto e la soluzione si rivelerà davvero molto, molto particolare.
Per una serie di complesse circostanze Mikael riesce a farsi aiutare da un'abilissima hacker, Lizbeth Salander - personaggio affascinante e inconsueto, di quelli con più strati di un millefoglie e più pieghe di un bull-dog.
Nel secondo e terzo volume il personaggio centrale è proprio Lizbeth, che si ritrova invischiata a morte in un complicato mistero dove intrighi politici internazionali e servizi segreti deviati formano una trama delle più complesse. La hacker ha in apparenza un carattere impossibile, ma le pochissime persone cui ha dato un minimo di relazione personale - tra le quali Mikael, che ha un eccezionale talento nel farsi benvolere dalle donne  - muovono cielo e terra per aiutarla, con notevoli risultati.
A parte Lizbeth e Mikael, il terzo grande protagonista della trilogia è la Grande Rete: i collegamenti informatici, a volte ottenuti in modo decisamente avventuroso, sono le strade su cui si irradia tutta la vicenda e la chiave per la soluzione di molti dei misteri, tanto che la trilogia diventa anche un grande inno a Internet e alle sue infinite possibilità.

L'architettura della vicenda è complessa ma molto ben gestita, ed è narrata con molta chiarezza. C'è una grande abbondanza di personaggi simpatici e il messaggio di fondo è ottimista.
Inconvenienti: dal momento che staccarsi dalle pagine è veramente difficile, si sconsiglia di  iniziare la lettura in un momento in cui non si dispone di un po' di tempo libero, a meno di non disporre invece di un'adeguata carriola per le occhiaie. Sono invece romanzi perfetti se per caso ci si ritrova costretti a passare qualche giorno a letto.

Con questo post partecipo ai Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro un felice fine settimana e ottime letture a tutti i partecipanti.